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Il tennis che non ci piace

Da qualche giorno gira la voce, da poche ore confermata sui giornali italiani, che il presidente del Coni sarebbe d’accordo con le indicazioni del Coi di escludere i tennisti russi dai tornei internazionali d’Italia, Atp (maschili) e Wta (femminili). Nello specifico, sarebbe inibita ai tennisti russi la partecipazione agli internazionali di Roma, in programma nel mese di maggio. Il tutto con il beneplacito del Ministro degli Esteri, il quale, in una dichiarazione sul tema, ha evocato un’unità europea che giustificherebbe la messa al bando dalla competizione degli atleti russi.

 

Il motivo è presto detto: i tennisti russi sono russi. Sono nati in Russia, hanno cittadinanza russa e questo, sic et simpliciter, è sufficiente per escluderli dalla prestigiosa gara.

Una cosa però non è chiara. E cioè come questa scelta si colleghi col fatto che i tennisti e le tenniste russe non gareggiano in rappresentanza della loro nazione, ma come liberi professionisti. Essi, in gara, rappresentano loro stessi. Di più, per evitare qualunque possibile imbarazzo l’Atp ha assicurato che “i tennisti russi e bielorussi saranno autorizzati a competere sotto bandiera neutrale”. Dunque, in caso di aggiudicazione del torneo non verrà neppure proposto l’inno nazionale russo.

Problema risolto? Neanche per idea. La strada verso la quale si sta andando sembra inesorabilmente quella della estromissione.

Eppure l’idea di escludere un tennista professionista da una competizione agonistica internazionale, semplicemente perché russo, sembra più una scelta discriminante che un allineamento - paventato dal Ministro degli esteri - alla posizione europea e internazionale. Alla luce del fatto, peraltro, che nessun altro torneo - escluso Wimbledon - ha preso fino ad oggi, né annunciato per le competizioni future, una simile decisione.

 

Lo sport, che unisce nei valori, nella fatica, nell’impegno, nella passione oggi è diventato terreno di discriminazione. Eppure, quando ci si incontra in un match si è avversari, mai nemici. Capita di vedere nervosismi, atteggiamenti fastidiosi, frustrazioni. Ma anche fair play, correttezza, complimenti reciproci. Alla fine, quando termina la gara, ci si lascia tutto alle spalle: ci si stringe la mano e ci si rispetta come atleti e come persone.

 

Per questo motivo la scelta di escludere, nello sport, è sempre sbagliata. Così si rischia di snaturare lo scopo stesso dell’attività sportiva: una sana competizione, da affrontare con l’abilità fisica e l’equilibrio mentale, che generazioni di campioni tramandano da decenni alle nuove generazioni, consegnando loro un contesto di svago e di crescita, stimolante e genuino - almeno fino ad oggi!   

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