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Il democratico PD

Non esiste partito più democratico del Partito Democratico. Talmente democratico da avere smarrito l’essenza stessa del termine. Se la democrazia, infatti, si fonda sulla centralità della sovranità popolare – e, nel caso di un partito, sull’espressione della c.d. base – esercitata per mezzo di rappresentanze elettive, non si capisce come mai ognuno, nel PD, rappresenti sé stesso, senza una vera idea di rappresentanza e, di conseguenza, di visione unitaria.

Il confronto e il pluralismo sono aspetti genuini da apprezzare – su questo non ci sono dubbi. Ma l’obiettivo di un partito prima, e di un governo poi, è trovare una sintesi tra le diverse anime che lo compongono per poter esprimere una linea organica che porti a realizzare quelle idee e quei progetti politici e sociali che la base – o il corpo elettorale – ha espresso per mezzo del voto dato ai suoi rappresentanti.

 

Cosa non funziona, dunque, nel Partito Democratico? Ha forse ragione Massimo Cacciari quando lo appella come un “partito mai nato”? Qualche riflessione in merito va fatta.

Se osserviamo quanto succede, notiamo come ogni big del partito si senta in dovere di rilasciare dichiarazioni, anche se in netto contrasto con quanto dichiarato dagli altri esponenti. Se poi a rilasciare dichiarazioni – quale semplice senatore – è Matteo Renzi, ecco che tutti gli si scagliano contro. Perché? Perché – e questo è innegabile – è il responsabile della disfatta del PD e perché continua a dichiarare di dimettersi nella forma senza, nei fatti, abbandonare il ruolo di leader. Questo, va detto, è da attribuire anche ad una mancanza di valide alternative alla personalità unica di Renzi.

 

Senza entrare nel merito delle affermazioni dell’ex segretario, va segnalato che i voti – seppur non sufficienti a far parlare di vittoria – avuti dal PD nella tornata elettorale del 4 marzo possono essere quasi interamente attribuiti alla sua persona. Quindi, forte di un consenso popolare che nel Partito Democratico pochi – o nessuno – hanno mai avuto, l’ex premier si arroga il diritto di proclamare la linea politica da seguire in questa delicata fase istituzionale.

 

Quello che i suoi antagonisti non digeriscono, probabilmente, è l’autorevolezza che Renzi conserva nei confronti di una fetta maggioritaria dei rappresentanti democratici e, quindi, l’assoluta certezza che questi agiranno, all’interno della direzione di partito e del Parlamento, secondo l’indirizzo politico, annunciato in un talk show televisivo, dallo stesso Renzi.

 

Le divisioni del Partito Democratico – che, da quando esiste, hanno sostituito le continue divisioni dei precedenti partiti della sinistra – non sono una novità e, in questa fase storica, possono essere attribuite quasi interamente allo stesso Matteo Renzi. Questi, dimostratosi punto di riferimento di tanti delusi dalla vecchia classe dirigente, avrebbe forse potuto sfruttare la sua capacità di generare consensi in un’ottica unitaria, federando quelle anime della sinistra che – talvolta per incapacità, talaltra per invidia – hanno sempre determinato delle divisioni che sono scaturite in sicure sconfitte elettorali, con buona pace dei militanti che, delusi, hanno riversato i propri voti in altri movimenti o partiti, più per protesta, che per fede politica.

 

 

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