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Il tonno Di Maio

I buoni propositi ce li ricordiamo tutti. Uno fra tutti: “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”. Loro, i 5 Stelle, erano l’apriscatole più solido e potente di sempre. Intransigenti, onesti e coerenti. E poco importava se erano giustizialisti coi paraocchi o moralisti pronti a mandare affanculo chi andava in giro in auto blu o con la scorta.

A guidare quest’onda di cambiamento – col beneplacito di Beppe Grillo – un certo Luigi Di Maio, già capo politico e leader del movimento nell’era pre-Conte, ha rilasciato dichiarazioni di fuoco contro chiunque fosse compromesso col sistema, venduto alle multinazionali o, ancora peggio, a favore dell’euro e dell’europeismo.

Battaglie di principio e vaffa dai palchi di tutta Italia hanno spinto milioni di cittadini a fidarsi del Movimento e dei suoi rappresentanti di spicco, affidandogli la rappresentanza nelle maggiori Istituzioni italiane ed europee, mossi dalla rabbia verso una classe dirigente che non riusciva ad interpretare le esigenze della gente comune.

L’epilogo è dei peggiori: delusione totale, nella forma e nei fatti. Nel Movimento non si è salvato nulla: non la faccia, non le battaglie, non i principi. Perfino la povertà non è stata sconfitta – se non quella di deputati e senatori dello stesso Movimento.

È emersa tutta l’ipocrisia e la sete di potere che anima i parlamentari pentastellati, il cui unico obiettivo è garantirsi un ruolo politico e il conseguente stipendio. Non sbagliano quegli elettori che si sono sentiti truffati e raggirati: perché di truffa politica si è trattato.

 

Mi piacerebbe chiedere a Luigi Di Maio cosa prova nel rivedere i suoi video di un paio di anni fa, nei quali si scagliava contro i suoi ex-colleghi che allora compivano atti politici considerati riprovevoli e vergognosi, da lui biasimati e condannati pubblicamente: gli stessi identici atti politici commessi oggi da lui.

Da apriscatole a tonno, da maestro di morale a esempio di “ignobile tradimento – come definito dal suo ex compagno di battaglie politiche Alessandro Di Battista.

Si è fatto strada a suon di congiuntivi sbagliati e di battaglie strampalate, di falsi moralismi e di slogan ripetuti a pappagallo, in cui egli stesso non credeva. Tutto aveva un fine: permettergli di diventare ministro, di essere uno dei tanti tonni dentro la scatola.

Il ministro Di Maio si è rivelato un personaggio in cerca d’autore o, meglio, un disoccupato in cerca di poltrona. Qualcuno gliel’ha lasciato fare e queste sono le conseguenze.

 

Non è la prima scissione di questa legislatura. Una scissione, in generale, non è sempre una brutta cosa in termini politici, ma, talvolta, serve ad affermare differenze che naturalmente si creano nei partiti più grandi.

Certamente, per evitare l’inutile nascita di partiti e partitelli o di dare seguito a sedicenti leader di correnti di partito – che più che correnti sembrano fastidiosi spifferi – l’unico rimedio sembrerebbe quello di inserire le preferenze nelle schede elettorali. Si dia la possibilità all’elettore di scrivere il nome del candidato, come avviene nei consigli comunali o alle elezioni dei parlamentari europei. Si elimini questa becera pratica delle liste bloccate, compilate da segreterie di partito secondo criteri di merito non meglio precisati. Una volta per tutte torniamo ai politici sul territorio, tra la gente, votati perché stimati, conosciuti e apprezzati.

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